di Massimiliano Sabbion
“Immaginare qualcosa, rappresentarla, fa di noi
degli uomini.
L’arte è conferire senso e forma.
È come la ricerca religiosa di Dio.”
(Gerhard Richter)
Vedere. Imparare a vedere significa andare oltre il semplice guardare, al di là del meccanismo ottico della visione: aprire gli occhi, in un atto semplice e naturale, è decodificare le forme e i colori, è percepire le immagini, è riuscire a riconoscere il visibile attorno. Se l’uomo guarda, l’artista vede e si spinge oltre la mimesi e il reale, non riproduce solo ciò che si apre allo sguardo, ma indaga, scruta e ricrea l’immagine attraverso la fantasia, per mezzo della sensibilità e nell’atto creativo immette il pensiero che distingue il “guardare” dal “vedere”. Gli occhi decodificano ciò che viene proposto e si impara ad assaggiare visivamente un quadro, una scul- tura, un oggetto e un’idea che si rivelano essere la prima vera sensazione istintiva ed emotiva. Per l’arte contemporanea spesso la vista non è l’unico mezzo per comprendere appieno ciò che si vede. Udire non è sentire, vedere non è guardare, si richiede, infatti, uno sforzo maggiore per annoverare tra le esperienze sensoriali quello che è poi presentato ai sensi. Non sempre ciò che si sente è piacevole, non sempre ciò che si vede è stimolante. Per questo il mondo contemporaneo è fatto di sensazioni, di carezze impalpabili che stimolano i sensi per arrivare, attraverso gli occhi, nell’anima di chi osserva e le sensazioni scaturite sono poi differenti: per mezzo dei sensi il piacere e il suo contrario passano spesso tramite gli occhi. Anche un quadro si può intendere con altri impressioni e la vista è il biglietto d’ingresso, ma gli stupori si propagano oltre la tela, è in gioco la sinestesia delle emozioni che arrivano a coinvolgere ed avvolgere lo spettatore in maniera armonica e appagante, ed è in questo modo che scaturiscono dialoghi non per- cepibili tra l’opera d’arte, il suo esecutore e lo spettatore. La rivoluzione dell’arte contemporanea parte da lontano, dal 1874, quando un gruppo di giovani artisti chiamati poi Impressionisti coglie l’attimo di ciò che si vede e lo fissano in un’immagine sulla tela alla ricerca della sensazione il più veritiera possibile della realtà circostante che, anche nella sua staticità, ri- sulta essere sempre mutevole per luce, tempo, atmosfera. (1)
Qualche anno dopo si passano poi le porte del secolo successivo e dall’impressione si approda all’espressione, manifestata attraverso i colori, gli stati d’animo, i cambiamenti epocali e gli artisti emergono con la sola forza del sentire interiore. Perché è importante fotografare questi passaggi? Perché è l’essenza legata non solo alla riproduzione delle cose, ma è alla base della ricerca artistica dei decenni successivi fino ad approdare ad una mescolanza di generi e tecniche che porteranno l’arte odierna ad un confronto con il passato per un presente vivo, attivo e che si proietta verso un futuro in continuo divenire. È in questo contesto che si inserisce il lavoro di Nadia Fanelli, tele che diventano preziose e curate non solo nella forma e nel cromatismo, ma nello studio di quella struttura così tanto studiata nei secoli, sezionata, scoperta, ricomposta, disgregata e frantumata e infine sciolta per apparire agli occhi di chi è coinvolto nella visione e nella decodifica di un linguaggio tanto complesso quanto affascinante. Nelle tele dell’artista l’oggetto è cosa incerta, il suo stato fisico suggerisce che qualcosa è al di là del mondo contingente, è una dissoluzione fisica che si presenta all’osservatore, la sua realizzazione è la dissolvenza di una forma che diventa un’altra forma, morfologicamente cambia, evoca ricordi, gioca ambiguamente con la mente. Un soggetto rappresentato da Nadia Fanelli non è mai privo di spunti e riflessioni: la cura nella scelta di ciò che si raffigura, la tecnica usata, la scomposizione visiva, la ricercatezza dell’effetto visuale, la piacevolezza correlata tra la materialità e la fluidità composta nella dissolvenza contribuiscono a rendere prezioso il risultato finale. La scomposizione ottica di colore e forme è da ricercare già negli studi e nei riflessi dell’ultimo periodo artistico di Claude Monet e negli artisti del Neoimpressionismo, dove sono riequilibrati i diversi elementi secondo le leggi dell’irradiamento, del contrasto e della degradazione con i risultati di artisti quali Georges Seurat, Henri-Edmond Cross e Paul Signac. (2)
Il colore si scinde e la forma negli anni seguenti comincia a mutare e scopre nuove dimensioni legate allo spazio e al tempo: dal Cubismo al Futurismo la materia si muove, si disgrega e ricompone fino al suo completo discioglimento nel mondo onirico metafisico e surreale. (3)
La base rimane la realtà dalla quale attingere le forme e i colori, anche quando la stessa realtà si fa non riconoscibile e astratta: nel “Primo acquerello astratto” (1910), Vasilij Kandinskij decide, volontariamente, di eliminare qualsiasi riferimento al mondo fisico lasciando spazio a macchie, segni e linee senza un significato logico, se non la celebrazione e rappresentazione di se stessi. (4)
Mutazioni e scomposizioni sciolgono la materia e la trasformano anche attraverso la fotografia che sperimenta un nuovo modo di intrecciare e ricomporre l’immagine per mezzo di sovrapposizioni, sfumature, leggerezze visive che disgregano la sostanza. Il modus operandi di Nadia Fanelli fa tesoro delle esperienze del passato e delle ricerche degli artisti che hanno tracciato la strada per l’indagine ora condotta dall’artista che, in continua esplorazione, mette in discussione lo stato fisico delle cose che emergono. I suoi lavori appaiono come sogni in una bolla di sapone: ovattati e fragili, ma allo stesso tempo ricchi di sfumature e di giochi di luce, di innesti e compenetrazioni con lo spazio circostante, l’immagine è risolta con un gioco di riflessi e liquefazioni che si combinano oltre lo stato fisico sfidando le leggi di gravità e arrivando a dissolversi dalla forma originale alla nuova rappresentazione, propagando così un flusso continuo che spinge chi guarda a cercare un dialogo tra la superficie della tela e il mondo esterno. Questo nostro pianeta è ora un territorio globalizzato fatto di contatti e comunicazioni che collegano ogni essere umano che non riesce però spesso a decifrare e a decifrarsi perso nel caos di un universo fatto di silenzi urlati, di social network pronti ad abbattere le distanze e le connessioni, di velocità e frenesia in cui spesso immagini, suoni, odori si accavallano o perdono nella moltitudine e i pensieri fluttuano nell’etere sublimandosi e scomparendo. Ecco quindi la rappresentazione liquida di mondi quotidiani di Nadia Fanelli che mette a fuoco l’aria che circonda i ricordi, scandaglia in un cielo capovolto le figure che vivono in spazi indefiniti che diventano tutt’uno con gli ambienti, emergono immagini come pozze d’acqua riflessa, si percepiscono canti eterei rivolti alle nuvole, si rimane avvolti alle folle indistinte e combacianti allo spazio circostante, si riconoscono poi singoli personaggi invischiati al tempo e allo spazio e il tutto è captato dalla resa pittorica dell’artista. Il pennello della pittrice scivola tra i colori e le resine traslucide quasi a impreziosire e laccare le immagini di sognatori che guardano il cielo ad occhi aperti come immersi nell’acqua dove, spalancando lo sguardo, riescono finalmente a vedere le cose anche se appaiono disgiunte dalla realtà. Mondi liquidi si aggrovigliano e confondono, le forme si innestano coi colori e liquefatti appaiono ora la memoria, i sogni e lo svolgersi dei pensieri, la realtà sfugge alle definizioni e ai limiti imposti, metamorfosi cromatiche ed istanti percettivi rivelano ad un secondo sguardo il flusso del divenire e la natura fisica delle cose permeata di simbolismi e metafore compositive. Se Salvador Dalì dipinge “La persistenza della memoria” (1931) fluidificando gli oggetti presenti con la presenza di orologi molli, simbolo dell’elasticità degli istanti vissuti, il tempo raffigurato nelle tele di Nadia Fanelli si fa ancora più dilatato, è ambiguo e discontinuo. (5)
Si riconosce l’attimo colto e l’eternità della memoria ed ecco che nei suoi lavori persistono im- magini desunte e riconosciute dal passato, si riconducono alla mente elementi identificabili per rimettere insieme quei pezzi snodati dalla dissoluzione della materia e distinguere così il soggetto dipinto. “Rendo le forme sfocate per far sì che tutto sia importante e non importante allo stesso tempo. Le rendo sfocate perché non sembrino artigianali o artistiche, ma tecnologiche, lisce e perfette. Sfoco perché tutti gli elementi si mescolino. Forse sfoco anche le informazioni non necessarie e superflue” nell’affermazione di Gerhard Richter si ritrova la summa dell’arte degli ultimi decenni in costante tensione e confronto tra la realtà dell’oggetto del dipinto e la realtà di ciò che è invece dipinto. (6)
Illusione e realtà, immaginazione e creazione, sono i filtri con i quali agisce la pittura in un co- stante rapporto tra mimesi e fantasia ed è lo stesso rapporto legato ad un vedere tangibile che si riscontra nella ricerca di Nadia Fanelli dove la sua ricerca scompone l’immagine per tuffarla in un nutrimento fatto di leggerezza e trasparenza, di aria e acqua e da qui il pennello si immerge tronfio di luce e di colore per restituire un’immagine eterna e riconoscibile ora e sempre. La sensazione visiva delle sue tele si fa anche tattile perché si innesca la voglia di toccare le su- perfici così levigate e lucide rese con sapiente uso e destrezza, l’occhio finalmente scruta oltre il visibile, si ricongiunge e riappacificano l’anima e la mente tra ciò che si è finora solo guardato con ciò che invece, ora, si vede.
(1) L’Impressionismo è il primo movimento contemporaneo che utilizza la fotografia come mezzo per la pittura e aprirà le strade alla contaminazione tra i due generi per tutte le Avanguardie artistiche successive. La prima manifestazione si tenne il 15 aprile 1874, presso lo studio del fotografo Felix Nadar, alla quale parteciparono Edgar Degas, Claude Monet, Berthe Morisot, Pierre-Auguste Renoir, Alfred Sisley e altri. Il nome del nuovo movimento si deve a Louis Leroy, critico d’arte del giornale “Le Charivari”, che definì la mostra Exposition Impressioniste, prendendo spunto dal titolo di un quadro di Claude Monet, “Impression, Soleil levant”.
M. SCHAPIRO, L’Impressionismo. Riflessi e percezioni, Einaudi, Torino 2008
(2) Il Neoimpressionismo è un movimento pittorico ispirato alla ripresa delle teorie dell’Impressionismo, chiamato anche Impressionismo scientifico. Nasce dalle riflessioni della « Société des Indépendants » presieduta da Odilon Redon e composta da Henri-Edmond Cross, Léo Gausson, Charles Ongrand, Hippolyte Petitjean, Albert Dubois-Pillet, Théo van Rysselberghe, Georges Seurat, Paul Signac. Il termine fu coniato dall’editorialista Félix Fénéon sulla rivista « L’Art Moderne » del 19 settembre 1886, e poi ripresa in un proprio saggio sul movimento.
P. MARTORE (a cura di), Félix Fénéon. Neoimpressionismo. Un’estetica scientifica, Castelvecchi Editore, Milano 2016
M. FERRETTI BOCQUILLON (a cura di), Seurat, Signac e il Neoimpressionismo, Skira, Milano 2008
(3) M. DE MICHELI, Le avanguardie artistiche del Novecento, Feltrinelli, Milano 2014
(4) L’unico esempio di pittura astratta ci viene offerto proprio da Kandinskij quando parla del suo unico e “Primo acquerello astratto” del 1910 e di un’esperienza che ha il sapore dell’aneddoto creato ad hoc per i posteri: il ritorno a casa dell’artista che, una volta varcata la soglia, non riconosce un suo quadro in quanto poggiato a terra e capovolto, tanto da non decodificare le forme e confonderne i significati. Quindi la forma astratta è un non riconoscimento della realtà o il punto di partenza è proprio la realtà di fondo? A quanto pare entrambe le cose… “Il sole tramontava; tornavo dopo avere disegnato ed ero ancora tutto immerso nel mio lavoro, quando aprendo la porta dello studio, vidi davanti a me un quadro indescrivibilmente bello. All’inizio rimasi sbalordito, ma poi mi avvicinai a quel quadro enigmatico, assolutamente incomprensibile nel suo contenuto, e fatto esclusivamente di macchie di colore. Finalmente capii: era un quadro che avevo dipinto io e che era stato appoggiato al cavalletto capovolto. […] Quel giorno, però, mi fu chiaro che l’oggetto non aveva posto, anzi era dannoso nei miei quadri.”
W. KANDINSKIJ, Punto, linea, superficie. Contributo all’analisi degli elementi pittorici, SE, Milano 2017
(5) La persistenza della memoria (in catalano La persistència de la memòria) è un dipinto a olio su tela (24×33 cm) del surrealista spagnolo Salvador Dalí, realizzato nel 1931 e conservato al Museum of Modern Art di New York.
È lo stesso Dalì a raccontare la gestazione dell’opera in Vita segreta:
“E il giorno in cui decisi di dipingere orologi, li dipinsi molli. Accadde una sera che mi sentivo stanco e avevo un leggero mal di testa, il che mi succede alquanto raramente. Volevamo andare al cinema con alcuni amici e invece, all’ultimo momento, io decisi di rimanere a casa. Gala, però, uscì ugualmente mentre io pensavo di andare subito a letto. A completamento della cena avevamo mangiato un camembert molto forte e, dopo che tutti se ne furono andati, io rimasi a lungo seduto a tavola, a meditare sul problema filosofico dell’ipermollezza posto da quel formaggio. Mi alzai, andai nel mio atelier, com’è mia abitudine, accesi la luce per gettare un ultimo sguardo sul dipinto cui stavo lavorando. Il quadro rappresentava una veduta di Port Lligat; gli scogli giacevano in una luce alborea, trasparente, malinconica e, in primo piano, si vedeva un ulivo dai rami tagliati e privi di foglie. Sapevo che l’atmosfera che mi era riuscito di creare in quel dipinto doveva servire come sfondo a un’idea, ma non sapevo ancora minimamente quale sarebbe stata. Stavo già per spegnere la luce, quando d’un tratto, vidi la soluzione. Vidi due orologi molli uno dei quali pendeva miserevolmente dal ramo dell’ulivo. Nonostante il mal di testa fosse ora tanto intenso da tor- mentarmi, preparai febbrilmente la tavolozza e mi misi al lavoro. Quando, due ore dopo, Gala tornò dal cinema, il quadro, che sarebbe diventato uno dei più famosi, era terminato.”
C. BROOK, Dalì, in Dossier d’art, Giunti Editore, Firenze 2000, p.43
S. DALÍ, Diario di un genio, SE, Milano 2008
(6) H. U. OBRIST (a cura di), Gerhard Richter. La pratica quotidiana della pittura, Postmedia Books, Milano 2005